Alla scoperta del gusto nel Giura
Oltre a vantare uno dei paesaggi più belli della Svizzera, il Giura è la patria di artigiani del gusto, che nella quiete assicurano una qualità del tutto particolare. Abbiamo visitato un piscicoltore, il «Cuoco dell’anno 2026» di GaultMillau, un casaro e un birraio la cui fama arriva fino a New York.
Acque chiare e fresche
«L’obiettivo di mio nonno Fernand era la qualità», afferma Jérôme Choulat all’inizio della nostra visita nell’idilliaco allevamento ittico di Soubey. Rappresentante della terza generazione, il simpatico giurassiano alleva trote arcobaleno, trote fario e salmerini di fontana. Inoltre, importa carpe dalla Francia, che affina in una seconda sede a Courtemaîche. L’affinamento dei pesci mediante sfilettatura, affumicatura, marinatura e condimento è un elemento importante del suo successo. Nel 2021, ad esempio, il filetto di trota salmonata marinato di Choulat è stato premiato con la medaglia d’oro al Festival Terroir Suisse, dove ogni anno circa 350 produttori di alimenti di alta qualità iscrivono circa 1000 prodotti al concorso svizzero di prodotti regionali.
L’azienda è stata fondata nel 1959 e attribuisce grande importanza a salute, benessere degli animali ed ecologia. Attualmente l’impianto è in fase di ristrutturazione ed è dotato di un nuovo sistema di filtraggio e di un biofiltro, che riducono ulteriormente l’impatto ambientale. Tutta la famiglia si impegna a favore della qualità. Con Jérôme Choulat lavorano anche sua moglie Laurence, suo padre Michel e suo zio Fernand Junior.
Ma l’elemento più importante per la salute e il benessere dei pesci allevati da Jérôme Choulat è logicamente l’acqua. Proviene da una sorgente nell’altopiano delle Franches-Montagnes e raggiunge le vasche dell’allevamento di Soubey a una rinfrescante temperatura di 9 gradi Celsius. «Il vantaggio di avere una sorgente propria è che l’acqua raggiunge il nostro impianto senza subire alcuna contaminazione umana», spiega Jérôme Choulat. I sensori monitorano costantemente il contenuto di ossigeno dell’acqua. Dell’ossigeno sufficiente significa meno stress per gli animali e, alla fine, una migliore qualità. Nell’acqua fresca e limpida i pesci crescono lentamente e formano più massa muscolare. «Per una buona trota al bleu, cotta nel court bouillon, serve un pesce muscoloso», afferma l’esperto allevatore che gestisce l’azienda dal 2020.
Per far sì che le trote e i salmerini crescano bene nelle acque sorgive di montagna, hanno bisogno di spazio a sufficienza. A seconda delle dimensioni dei pesci, l’allevamento avviene gradualmente in diverse vasche. Protetti da un tetto e fuori dalla portata di uccelli affamati, in vasche più piccole nuotano circa 300 000 avannotti: pesciolini appena nati, non più grandi del dito di un bambino. Se dopo circa tre mesi sono cresciuti a sufficienza, passano in una vasca più grande.
La clientela della famiglia Choulat è ampia e variegata. Si compone in particolare di privati, ristoranti, imprese, piccole catene di vendita al dettaglio e grossisti. Il pesce allevato nelle acque del Giura viene quindi distribuito in tutta la Svizzera. Tra i clienti soddisfatti c’è anche il grande chef Jérémy Desbraux della «Maison Wenger» a Le Noirmont.
Alta cucina in mezzo al nulla
Solo perché il ristorante Maison Wenger si trova nei pressi della stazione FFS di Le Noirmont non significa che sia un classico locale da stazione. Nonostante l’eleganza degli ambienti, rinnovati di recente, l’atmosfera è accogliente e non ricorda affatto quella di un tipico tempio gourmet che ci si aspetterebbe da un ristorante che, con 18 punti GaultMillau e due stelle Michelin, è tra i migliori del Paese. Non c’è da stupirsi: ai fornelli c’è Jérémy Desbraux, il «Cuoco dell’anno 2026» di GaultMillau.
Ma il fascino, sia per il locale che per la sua posizione nel cuore del Giura, sta nel fatto che il buon cibo qui è la norma, e non è riservato a occasioni speciali come matrimoni o anniversari a cifra tonda. È una conclusione che si può trarre anche osservando il mix di ospiti presenti in un normale giovedì a pranzo, tra cui delle coppie, un gruppo di giovani uomini e, al tavolo accanto, quattro orologiai del luogo con abiti decisamente casual: pantaloni corti e scarpe aperte. Un’immagine che difficilmente si vedrebbe in un ristorante gourmet della Svizzera tedesca. Uno degli artigiani ha realizzato dei sottopiatti che riproducono un orologio in forma astratta usando metallo ai lati e un vetro rotondo, posizionati su ciascuno dei tavoli e utilizzati come base per le salsiere.
Nonostante la piacevole disinvoltura che regna qui, in cucina e nel servizio l’asticella della qualità è alta. Jérémy Desbraux e la sua compagna Anaëlle Roze gestiscono l’attività insieme. Hanno finanziato i quattro mesi di ristrutturazione del ristorante e delle poche camere d’albergo con un prestito dell’azienda di orologeria del Giura Richard Mille. La particolarità, tuttavia, è che Desbraux e Roze sono entrambi cuochi qualificati, entrambi con un curriculum più che decoroso. Prima dell’acquisizione della Maison Wenger nel 2019, lui è stato sous chef presso l’«Hôtel de Ville» di Crissier, da decenni considerato uno dei migliori ristoranti del Paese. Lei lavorava già come cuoca alla Maison Wenger per Georges Wenger, leggenda del Giura che ha gestito il ristorante di Le Noirmont per 38 anni e nel 1997 è stato nominato «Cuoco dell’anno».
«All’inizio lavoravamo entrambi in cucina», racconta Anaëlle Roze parlando della nuova situazione mentre serve uno Champagne de Vigneron. Ma ben presto abbiamo capito che non avrebbe funzionato, dice con un sorriso. Ora lui dirige la cucina con una dozzina di cuochi che indossano il tradizionale toque bianco e lei è responsabile di un servizio attento, affascinante e ben informato. Anche se Le Noirmont sembra essere nel nulla e con i suoi 1957 abitanti
non è esattamente una metropoli della Svizzera occidentale, il luogo è facilmente raggiungibile per molti ospiti. «La nostra clientela viene da Ginevra, Neuchâtel o dal Giura. Ma nemmeno Zurigo, Berna o Basilea sono così lontane», afferma Anaëlle Roze.
La sua cucina, invece, è profondamente radicata nel terroir del Giura, afferma Jérémy Desbraux. Lo chef trentanovenne abbina una trota salmonata a cottura lenta proveniente dall’allevamento di Jérôme Choulat a Soubey (si vedano le pagine precedenti) con un elegante fumetto di pesce, aromatizzato con la freschezza della verbena odorosa. In più c’è solo un po’ di porro. «Voglio che il cliente sappia cosa mangia», dice Desbraux parlando di uno dei principi più importanti della sua cucina. Oltre a numerosi prodotti regionali, tra cui il latte di fattoria e i fiori di sambuco di Le Noirmont, il francese di nascita lavora volentieri con prodotti che ha imparato a conoscere e ad apprezzare nel corso della sua carriera, come le cozze DOP di Mont-Saint-Michel, che abbina a una ratatouille estiva. Il succo dei molluschi viene utilizzato per condire le verdure con
una nota aromatica di iodio.
È una cucina delicata e onesta allo stesso tempo e sembra adattarsi perfettamente a questa regione. Si potrebbe dire che la cucina di Jérémy Desbraux sia una sorta di ritratto del paesaggio in cui nasce: creativa, ma non artificiale, invitante e diretta. Proprio come le persone che si incontrano nel Giura, che con dedizione e passione, e forse anche con un pizzico di ostinazione, lavorano per creare qualcosa di speciale da ciò che la natura ci regala.
L’ospite deve
sapere quello
che mangia.Jérémy Desbraux
Birra di fama mondiale
Nel 2009 il quotidiano «The New York Times» definì la birra con lo strano nome «L’Abbaye de Saint Bon-Chien» della Brasserie des Franches-Montagnes (BFM), nel Giura, «la migliore birra del mondo invecchiata in botti di legno». Da allora Jérôme Rebetez di Saignelégier è una leggenda del Giura. In quanto birraio non deve essere serio come un contabile, ma può divertirsi a creare nuove birre, afferma.
Con la sua birra, Rebetez non solo ha raggiunto la fama mondiale, ma ha anche gettato le basi per una popolarità senza precedenti della cosiddetta craft beer. Il termine inglese indica l’arte della birra artigianale, che, negli ultimi vent’anni, ha portato in Svizzera a un boom della produzione di birra e alla più grande densità di birrifici al mondo. Tutto è iniziato qui, sulle tranquille colline del Giura.
Nel pomeriggio dentro la birreria non c’è molta vita, ma all’aperto le circa due dozzine di membri di un beer club, arrivati apposta per gustarsi una buona birra, siedono soddisfatti a un lungo tavolo in legno e sorseggiano una «Barrel Aged Sour Ale» o una «La Brouette» appena spillata e aromatizzata con tè verde. Quando si parla di craft beer, le possibilità sono infinite. In questa fantasiosa disciplina dell’arte birraia non esiste qualcosa di simile all’Editto della purezza tedesco (il Reinheitsgebot).
La storia di Rebetez inizia però con il vino. Prima di fondare la BMF a 23 anni, seguì una formazione come enologo. Ma la scienza del vino non era la scelta giusta per un anticonformista come lui. Invece, produsse una birra chiamata La Salamandre, condita con chiodi di garofano, coriandolo, miele e bucce d’arancia. È così che la salamandra nera divenne il marchio di fabbrica. Per il nome della sua birra più famosa Rebetez si ispirò invece alla produzione di birra belga, dove – come per il Tête de Moine – erano i monaci responsabili dell’innovazione: è da qui che arriva la parola «L’Abbaye» (abbazia).
Nel 2004, «L’Abbaye de Saint Bon-Chien», invecchiata in vecchie botti di vino, gli aprì la porta sul mondo. «Bon-Chien» (buon cane) è il nome del gatto che si era rifugiato dal simpatico birraio. E poiché dopo la sua morte fu santificato dal proprietario, nel nome della birra agrodolce con l’11 percento di gradazione alcolica si trova anche la parola «Saint». L’ostinato birraio, che non filtra né pastorizza le sue bevande, va per la sua strada anche in fatto di confezionamento: le lattine sono malviste e per le bottiglie ha installato un apposito impianto di lavaggio, perché è più ecologico lavare il vetro con acqua a 80 gradi piuttosto che produrlo a 1800 gradi.
Una leggenda del Giura
Il quarantenne Menno Amstutz è un uomo allegro e dinamico che ci accoglie nel suo caseificio nella tipica uniforme da mastro casaro: polo bianca, pantaloni bianchi e stivali di gomma bianchi. Dopo aver completato l’apprendistato come casaro a Le Noirmont, a 20 anni Menno Amstutz, che parla tedesco bernese ed è originario del Giura, inizia a lavorare alla Fromagerie Amstutz, fondata da suo nonno nel 1956. Sei anni fa ha assunto la direzione dell’azienda, dove si dedica con passione a uno dei beni culturali, e culinari, del Giura: il Tête de Moine, un prodotto unico che esiste solo qui. Con la cosiddetta Girolle, inventata nel 1982, il formaggio viene raschiato dalla forma e servito in fette sottilissime a forma di fiore.
Menno Amstutz produce il formaggio come prodotto biologico o in modo tradizionale, «ma il latte non trattato deve in ogni caso provenire dalla regione e avere l’etichetta DOP», afferma. «I monaci del XII secolo dell’abbazia di Bellelay, ai quali dobbiamo questo formaggio, a Natale avevano l’abitudine di raschiarlo con il coltello e mangiarlo insieme al pane», racconta l’allegro casaro. Tête de Moine non significa altro che testa di monaco. E anche se la produzione dell’aromatico formaggio resta una questione artigianale, Amstutz è uno dei maggiori produttori della regione. In totale esistono ancora otto produttori di Tête de Moine. Circa il 20 percento della produzione complessiva di 500 tonnellate proviene dallo stabilimento di Amstutz. Ciò richiede ogni anno 7,5 milioni di litri di latte. Il 65 percento del formaggio viene esportato, un’attività che negli ultimi anni ha registrato una buona crescita.
«Gran parte di questo formaggio è destinato alla Francia», afferma Menno Amstutz. «Anche i francesi sanno fare il formaggio, ma non il Tête de Moine», aggiunge ridendo. Lui mangia il loro formaggio a pasta molle. Nel frattempo siamo giunti nelle profondità della cantina del caseificio, dove sono sistemati scaffali in legno alti diversi metri e due addetti, con pazienza, prelevano una forma dopo l’altra da un punto dello scaffale, le lavano brevemente, le girano e le riposizionano. Durante il periodo di stagionatura di almeno 75 giorni e non più di 90 giorni, ogni forma deve essere lavata e girata per 30 volte fino a raggiungere la consistenza semidura desiderata e il sapore tipico dell’originale prodotto giurassiano.
Testo David Schnapp
Foto Digitale Massarbeit
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